“Vorrei condividere con voi una convinzione di tutte le donne (…) nessuna ricorre di buon cuore all’aborto”. Queste, le parole di Simone de Beavoir, coraggiosa pensatrice del ‘900 battutasi ferocemente per i diritti della donna, che omaggio con il titolo.
Gli scorsi mesi ha fatto discutere la decisione della Corte Suprema Americana la quale ha abolito la storica sentenza Roe v.Wade con cui nel 1973, la stessa Corte, aveva legalizzato l’aborto negli Usa, lasciando oggi ai singoli Stati la libertà di legiferare a riguardo.
Mi avevano lasciato frastornata le reazioni dei lettori quando ho pubblicato la notizia e oggi l’argomento torna più che mai attuale a seguito delle elezioni politiche.
“Esistono gli anticoncezionali”; “trattasi di omicidio”; “dovrebbe essere reato”, sono solo alcuni dei commenti più radicali. Per lo più donne a esprimersi così nettamente.
Mi sono chiesta: ci sono così tante donne antiabortiste? E’ una posizione di natura morale, religiosa, etica, o storicamente stanno cambiando le sensibilità?
Premettendo che l’argomento è quanto di più spinoso possa esserci e che esprimersi sul tema non credo sia cosa semplice, ritengo comunque, alla luce di quanto emerso, interessante tracciare una storia, lunga quanto l’origine della donna.
Una fatica necessaria per incoraggiare una riflessione – che sicuramente a livello personale ciascuno valuterà caso per caso – spero il più possibile priva di condizionamenti.
Il gentil sesso, sin dalla sua origine è stato oggetto di rivendicazione. Il suo corpo, così magico, capace di ricreare la vita, preservare la specie, garantire una stirpe, è presto diventato materia di contesa. Chi possedeva il corpo della donna, la sua determinazione, la sua obbedienza, possedeva la società nella sua interezza.
Si, perché una nuova vita, prossimo individuo sociale, nasce sempre nel grembo di una madre, e la sua volontà riguardo al naturale concetto di procreazione, cui biologicamente è chiamata, orienta in ordine casuale, politica, economia, vivere civile.
La verità è che si fanno tante chiacchiere ma sul corpo delle donne si giocano i principali orientamenti sociali senza che questa, nella maggior parte dei casi, ne sia consapevole.
Era il 1925 quando il guardasigilli del Governo Mussolini, Alfredo Rocco, cui si deve il nome del nostro codice penale, chiarì alla Camera, il concetto ideologico dell’art. 553 c.p., intitolato “Incitamento a pratiche contro la procreazione” inserito all’interno del Titolo X “Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”, il quale prevedeva la punizione di chiunque in pubblico incitasse alla contraccezione o divulgasse informazioni e conoscenze finalizzate a mettere in luce favorevole tali pratiche.
Tra i principi guida nell’elaborazione di questa legge – spiegò Rocco – vi era quello di tutelare l’integrità e l’avvenire della razza: “sopprimere o isterilire le fonti della procreazione è un attentato alla sua vita stessa”.
Punire l’informazione contraccettiva era funzionale per preservare una delle politiche cardine del fascismo: la politica natalista.
Era vietato tutto: diffusione di materiali informativi, brevetti di farmaci, presidi medici o chirurgici con finalità anticoncezionale o abortiva.
Si concretizzava, così, l’indirizzo delineato dal Duce nel suo «discorso dell’Ascensione», il “numero è potenza”, la natalità e il progresso demografico sono il fulcro centrale dell’ideologia fascista.
Sempre di quegli anni gli artt. 545 e successivi del Codice Penale parlavano chiaro: “chiunque cagiona l’aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni”; e con il suo consenso “da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto”; infine, “la donna che si procura l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni”.
L’art. 553, giusto per intenderci, sopravvisse al fascismo, alla transizione in Repubblica e bisognò aspettare il 1971 perché la Corte Costituzionale intervenisse per dichiararlo illegittimo.
Ma i tempi già cominciavano a cambiare. Tra il ‘52 e il ‘68 furono presentate otto proposte di legge per la sua abrogazione.
Seppur tutti i tentavi di modifica fallirono, la musica era ormai cambiata: l’ideologia fascista sbiadiva sotto lo spettro di una nuova società nascente. Persino il suo lessico si modificò: adesso si alludeva al diritto di famiglia, e dunque alla tutela di un corpo collettivo, non più alla procreazione retta dal mito della natalità; si sostituiva al termine di stirpe quello più vago di generazione.
Fu il Tribunale di Milano a dare una brusca accellerazione. Una sottile distinzione tra pratiche abortive e pratiche anticoncezionali si poneva a guardiola della valutazione di condanna. Secondo i giudici l’articolo in questione puniva pratiche contro la procreazione ma solo a fecondazione avvenuta. Gli strumenti anti contraccettivi venivano così riabilitati dalla nostra società.
I termini del dibattito erano definitamente mutati, ma perché?
Se durante il ventennio si aveva paura del declino demografico, nel dopoguerra si schiudeva il timore del sovrappopolamento.
E facciamo un passo indietro, per capire meglio se “il corpo è mio e decido io”, veramente, o se i movimenti della storia e della società orientino le scelte delle donne illudendole, spesso goffamente, di lasciar loro un qualche spiraglio di scelta. Già, perché la storia dell’aborto ha radici molto antiche e l’orientamento degli occhi indiscreti di chi giudica ha innumerevoli volte cambiato bandiera e direzione.
Da quello che sappiamo le interruzioni di gravidanza venivano praticate, di fatto, già nei secoli precedenti la venuta di Cristo. Erbe medicinali, utensili appuntiti e pratiche di pressione addominale erano utilizzate, come si può immaginare, con alterne fortune.
La testimonianza artistica più antica risale a 12 secoli prima di Cristo: un bassorilievo in Cambogia e dall’Egitto ci arriva la testimonianza più remota, 1550 a.C., un intero capitolo dedicato a metodi contraccettivi contenuto nel Papiro Ebers.
È sorprendente scoprire ancora come tra gli antichi greci e romani l’aborto fosse una pratica comune a tutti e pienamente accettata, ma a un patto: che fosse il marito della gravida a darne il consenso.
Era una esperienza truce e dolorosa, e a determinarla era la decisione di un uomo, spesso suo tutore, compiuta attraverso l’assunzione di farmaci e massacranti massaggi che portavano alla morte del feto.
Dobbiamo arrivare alla fine del Cinquecento, culmine del Rinascimento, perché la chiesa prenda per la prima volta la parola sul tema. E fu papa Sisto V a farlo: il carattere omicida dell’aborto ne proibisce il ricorso a tutti i cristiani, una posizione che resterà immutata per i secoli a venire.
Per questi secoli gli aborti furono clandestini e non di rado cagionavano la morte delle donne che vi si sottoponevano. Una strage nascosta sotto il tappeto del buoncostume.
800 mila aborti clandestini ogni anno. Numeri da far rabbrividire, ancor più se si pensa alle condizioni mediche e igieniche in cui erano praticati.
Non si poteva continuare a tacere.
E arriviamo al Novecento, anni in cui si riapre il dibattito con le prime legalizzazioni, tra gli anni ’20 e ’30, in Unione Sovietica (primissima a regolamentarlo subito dopo la Rivoluzione d’ottobre), e a seguire Islanda, Svezia, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Inghilterra….
Stavano nuovamente cambiando i tempi e le sue esigenze sociali: le donne, dopo la seconda guerra mondiale, erano entrate pienamente nel mercato del lavoro, la crescita demografica era galoppante, con una media negli anni ‘60 di 6 figli per donna, usciva su tutte le librerie “The Population Bomb”, di Paul Ehrlich, destinato a diventare un best seller e, per la prima volta, si parla pubblicamente del tema scottante del controllo della popolazione.
Persino dal Pontefice Paolo VI arriva uno scossone. La famosa enciclica “Humanae Vitae” parla di “paternità responsabile” e di particolari condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali che permetterebbero di decidere “se evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita”. Siamo nel 1968.
“Evitare una nuova nascita”. Parole fortissime per un Papa e che suscitarono non poche polemiche.
Per legittimare questo cambio di vestito si faceva strada un nuovo principio, inedito: come anticipato, quello che distingueva il feto dal nascituro, che a tutt’oggi orienta la scelta normativa contenuta nella famosa L. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio 1978.
La donna, garantendo l’anonimato delle sue generalità, poteva ora ricorrere all’aborto entro i primi novanta giorni e tra il quarto e il quinto mese di gestazione per ragioni di natura terapeutica.
Questa è brevemente la nostra storia abortita. La storia della donna e della sua capacità procreativa, della determinazione sul corpo e sulla società o viceversa.
Delineata questa cornice mi auguro per qualcuno diventi più semplice e meno impulsivo esprimersi sull’argomento o non esprimersi affatto.
Quanto a me, credo di dovervi esporre il mio pensiero del tutto personale.
Penso in prima battuta che bisogna fare una distinzione. La questione morale, spesso strumentalizzata, e quella politico-sociale. Sebbene ritenga siano strettamente connesse, la prima ha natura squisitamente individuale e, come tale, deve essere valuta intimamente da chi si accinge a praticarla, diversamente, quella normativa e politica dettano una direzione sociale di ciò che è lecito e ciò che non lo è.
Sulla prima non ho alcun diritto di entrare: ho il massimo rispetto per chi protegge la vita, per chi la considera sacra fin dal momento del concepimento, così come per coloro le quali, per ragioni privatissime, fanno scelte di natura differente.
Vedo con chiarezza che queste donne, troppo spesso, vengono lasciate sole, alla mercè di facili giudizi. Le loro decisioni non sono accompagnate da un’adeguata informazione che generi consapevolezza e responsabilità verso sé stesse e verso il bambino. Ancora oggi una donna di fronte a una gravidanza non programmata (per le ragioni più disparate), non di rado, deve arrangiarsi.
Fatta questa premessa, posso dire senza riserbo che io difendo il corpo della donna, la sua autodeterminazione cosciente e non soltanto biologica; il suo viscerale legame con la natura affinché questo possa rappresentare per lei, e la società in cui è inserita, sempre una benedizione e mai una condanna.
Perché non è impedendo alla donna di compiere un gesto così cruento e doloroso che si può liquidare la questione dell’aborto, non obbligando un bambino alla vita, che diventa tortura di crescere nel grembo di una madre che non lo vuole, che lo rifiuta, che lo odia.
Non parliamo di un contenitore sterile e privo di volontà. Che piaccia o meno, la vita del nascituro è ancorata fisicamente e, per chi ci crede, spiritualmente al corpo di sua madre. Se lei muore lui morirà, se lei si ferisce, lui sarà ferito, se lei si inquina, anche lui sarà inquinato.
Le sue sorti sono le sorti della madre che presta il corpo e tutto ciò che è intrinseco ad esso, affinché il feto possa venire al mondo.
Sono per la responsabilità che nasce sempre dalla consapevolezza, e dall’accoglienza che l’intera società mostra verso i nuovi nati e le sue madri.
E’ la madre l’elemento chiave di tutta questa disquisizione, e io intendo difenderla nel suo diritto primario di esistere, di decidere, spero non senza giudizio, affinchè possa dare avvio all’avventura di quel miracolo meraviglioso che noi così semplicisticamente chiamiamo Vita.